
La gola è il desiderio di ingurgitare più di quanto l’individuo necessiti. È l’ingordigia di cibi e bevande, condannata sia poiché esempio di sfrenatezza al posto della modestia e del controllo di sé, sia come ingiustizia sociale in contrapposizione ai poveri che soffrono la fame. In particolare, nell’epoca medievale, era particolarmente disprezzata in quanto la miseria e la fame erano molto diffuse, tanto che per la Chiesa Cattolica è uno dei sette peccati capitali.
Coincide con un desiderio d’appagamento tempestivo del corpo per mezzo di un qualcosa di materiale che provoca compiacimento e soddisfacimento immediato. É un’irrefrenabilità, un’incapacità di moderarsi nell’assunzione di cibo ed è intimamente connessa con la pulsione orale.
Perché risulta così difficile darsi una misura nell’assunzione del cibo? Una spiegazione potrebbe provenire dal fatto che gusto e olfatto sono i sensi più arcaici e, di conseguenza, mettono in moto le zone più primitive del nostro cervello, sulle quali ragionamenti, propositi e “buona volontà” hanno scarsa incidenza. Ecco perché la gola, più che un vizio capitale, è un richiamo alla nostra animalità, alla nostra parte più istintiva.
Cibo: significato psicologico
Il rapporto con il cibo investe aspetti legati all’esistenza dell’essere umano. Infatti, dal momento che il nutrimento è la primaria condizione di esistenza, spetta al cibo – e alla gola – mettere in scena un tema che non è alimentare, ma profondamente esistenziale, perché implica l’accettazione o il rifiuto di sé. Infatti, se al tempo dei nostri avi mangiare implicava solamente il reperire cibo ed il non diventare cibo per altri, oggi racchiude, invece, aspetti che hanno a che fare con la nostra identità.
Mangiare e bere costituiscono la risposta a pulsioni fisiologiche attraverso le quali l’organismo richiede energia e nutrimento. Queste due azioni, banali e assolutamente naturali e innate, rappresentano anche una fondamentale esperienza psicologica, ossia l’appagamento di un desiderio. Perciò, il cibo assume valenze che vanno ben oltre il solo nutrimento fisico. Il cibo, infatti, può rappresentare una valvola di sfogo, un rifugio o un anestetico contro le sofferenze del momento, troppo difficili e dolorose per essere messe in parola. Pertanto, stati d’animo come ansia, depressione, stress o inibizione emotiva possono influire sul rapporto con il cibo e causare un aumento di peso.
In alcuni casi, il cibo diviene portatore di un significato psicologico di estrema importanza, quale essenza di vita o dell’esistere. Il gioco con la morte o con la negazione di sé comincia ben prima di sedersi a tavola: si tratta, infatti, di decidere se esistere o non esistere e, siccome il cibo è la prima condizione di esistenza, spetta al cibo e alla gola mettere in scena un tema che alimentare non è ma è, prima di tutto, esistenziale (U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano, 2007).
Il cibo, dunque, non viene gustato, bensì ingurgitato per riempire immediatamente un opprimente senso di vuoto interiore, confuso con la sensazione di fame vera e propria, allontanandosi dalla dimensione del piacere connessa al cibo. Mangiare, o meglio abbuffarsi, allora, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive per la sua facilità di reperimento e il piacere immediato che produce, in bocca e nello stomaco, come senso di pienezza e sazietà.
La “gola” e i disturbi del comportamento alimentare
Parlando del peccato capitale della gola e dei significati psicologici a esso connessi, in quest’epoca e in questa società, non si può non far cenno all’obesità, determinata dall’eccessivo consumo alimentare, per effetto di un’offerta troppo varia e “appetitosa”, che può ingannare i meccanismi regolatori della fame e della sazietà. Non dobbiamo dimenticare che, oggi, esser grassi in una società che predilige i magri equivale ad una non troppo mascherata esclusione sociale. Con quali conseguenze psicologiche per la persona? A tale proposito, U. Galimberti (ibidem) descrive un interessante parallelismo tra le discipline che un tempo servivano a salvare l’anima, quali mortificazione, astinenza e digiuno, e la loro reintroduzione in chiave moderna, sottoforma di esercizi, diete, moderazione e misura, non tanto per garantire la salute del nostro corpo, quanto più per salvare la propria identità e la possibilità di essere salvati, che l’obesità compromette.
La letteratura sull’argomento ha da sempre sottolineato la grande importanza del legame di attaccamento con la propria madre – o caregiver – nel determinare una propensione ad un disturbo del comportamento alimentare. In questo “gioco” dell’individuo con il cibo, come scriveva Gérard Apfeldolfer (Je mange, donc je suis, 1991; trad. it: Mangio, dunque sono. Obesità e anomalie del comportamento alimentare, Marsilio, Venezia, 1993) il senso profondo riguarda l’esistenza, perciò la persona che mangia per esistere e che vuole dimagrire per la medesima ragione cammina sul filo del rasoio, in un gioco in cui il cibo diventa non più sostentamento e nutrimento fisico, bensì prova d’esistenza. E per questo significato il cibo non ha parole perché è un settore che non gli compete.
In un tale complicato tessuto di significati e valori, non risulta complesso capire come la persona in preda ad un’abbuffata bulimica in quel momento esista, poiché le sensazioni violente e perturbanti di quel tempo gli consentono di recuperare sostanza e “riempirsi”, per dare dignità, seppure per un breve momento, ad un’esistenza effimera, vuota. Con il cibo, perciò, “si combatte l’angoscia del niente e si ripara il vuoto esistenziale, ristabilendo il contatto con i propri punti di riferimento corporei” (U. Galimberti, op. cit., pagg. 50-51).
I disturbi del comportamento alimentare hanno intrinsecamente una sfida continua con la morte, proprio per le restrizioni o, al contrario, l’eccessiva introduzione di cibo, poiché il cibo è il nostro nutrimento, ciò che ci tiene in vita. Tale tema è visivamente più evidente nella patologia anoressica, giacché i corpi scheletrici, da cui scompaiono tutti i segni di benessere, salute e femminilità, sono per tutti di grande impatto. L’obiettivo è quello di mantenere uno stretto controllo sul peso per evitare di ingrassare come parte di un bisogno di controllo totale del corpo e delle sue funzioni.
L’anoressia è un disturbo del comportamento alimentare che comporta un rifiuto più o meno grave ad alimentarsi. Implica anche una distorsione dell’immagine corporea, per cui viene negata l’effettiva condizione di debilitazione fisica. Inoltre esiste una negazione di stimoli come la fame o la stanchezza, spesso connessa alle attività di fitness messe ossessivamente in atto al fine di mantenere sotto controllo il peso. Questo insieme di comportamenti implica, quasi sempre, una situazione di amenorrea e può arrivare, nelle forme estreme, a provocare conseguenze permanenti sul piano corporeo, fino a mettere in pericolo la vita stessa.
La patologia anoressica s’insinua in una società che attribuisce un’eccessiva importanza all’immagine estetica con cui ci si presenta agli altri, per cui io sono ciò che appaio e ciò inevitabilmente influisce sulle relazioni sociali, che rischiano di allontanarsi sempre di più dalla loro natura di autentico incontro con l’Altro.
Sul piano intrapsichico, il tema centrale che impegna la persona che soffre di anoressia, così come quella che soffre di bulimia, è quello della separazione-individuazione, processo fondamentale per la costruzione dell’identità. In questi casi si è, infatti, di fronte ad un forte legame di tipo simbiotico con la madre durante l’infanzia: il vincolo di dipendenza del bambino dalla madre, inizialmente funzionale alla sopravvivenza del piccolo, se non viene sostituito da progressivi processi di separazione ed individuazione,che segnano la crescita psicologica dell’individuo in termini di autonomia, non lascia al bambino lo spazio sufficiente per divenire psicologicamente maturo e un individuo indipendente. È, perciò, fondamentale il passaggio dal considerare il bambino quasi una parte di sé, al riconoscergli una propria individualità, caratterizzata da specifici bisogni e desideri.
In questo processo, la persona che soffre di anoressia sembra essere in conflitto con il modello femminile e soprattutto con quello materno, in uno sforzo di acquisire una separatezza dalla madre che evidentemente non è stata conquistata in una fase precedente e che fa fatica a delinearsi, essendo in conflitto con un desiderio contemporaneo di fusione. Il campo della battaglia diventa proprio il corpo: la diversità del corpo, attaccato nelle sue forme femminili, sembra l’unico modo per differenziarsi. L’attacco al corpo è concreto e testimonia la difficoltà delle pazienti alla mentalizzazione e la preferenza per l’agire piuttosto che per il pensare. Come per la persona bulimica, anche qui non c’è spazio per le parole: i conflitti non sono rappresentati, tradotti in pensieri e in parole, ma vige il passaggio diretto ai comportamenti e l’attacco al corpo sessuato ne è un esempio. Questa modalità di funzionamento si deve probabilmente far risalire ad ancora più precoci difficoltà di rispecchiamento che la/il bambina/o ha incontrato nel rapporto con la propria madre, probabilmente non pronta ad accogliere e leggere i suoi stati d’animo, per darne un nome e un significato, iniziandolo così, al compito di riconoscimento dei propri stati interni.
Il comportamento della persona che soffre di anoressia ci porta anche a riflettere sulla dimensione relazionale del sintomo e sui significati di questo comportamento all’interno della famiglia. La difficoltà principale che spesso si è riscontrata è la possibilità di accedere ad una dimensione triadica, che vede madre, padre e figlio/a in relazione. Più spesso il terzo escluso è il padre e quello che si manifesta è una alleanza simbiotica tra madre e figlia che riproduce, talvolta, quella che ha legato in precedenza la mamma alla nonna materna. Questo contribuisce alla costituzione di un’immagine interna di madre fagocitante da cui bisogna difendersi perché non c’è un padre capace di costituire una barriera difensiva. Il padre, infatti, spesso si autoelimina anche dalla relazione coniugale, lasciando madre e figlia unite in un abbraccio mortifero e rinunciando alla sua funzione di agente separante.
C’è dunque, alla base, una disfunzionalità della coppia che non riesce a proporsi come sufficientemente coesa ed in grado di definire con chiarezza gli spazi e le differenze generazionali.
Questo tipo di funzionamento, fondato sull’alleanza di madre e figlia con un padre escluso, sembra funzionale sicuramente a evitare i conflitti, altra caratteristica centrale di queste famiglie, per lo meno fino a quando non si affacciano le prime istanze di separazione adolescenziali. Sotto la spinta della necessità di definirsi e di confrontarsi con la dimensione di una nascente sessualità, l’equilibrio precedente si rompe e spesso l’anoressia sembra l’unico modo per impedire un processo di crescita altrimenti ineludibile e, tuttavia, terrorizzante.
La “gola” e la personalità orale
Parlare della “gola” non significa solamente collegare il discorso psicologico ai disturbi del comportamento alimentare. Significa anche richiamare l’antico e analitico tema dell’oralità, che Freud ha enfatizzato nel complesso sviluppo psicofisico, esaminandola in relazione alla struttura di personalità dell’individuo.
Le tendenze orali mostrano tratti di “vampirismo”: individui con tali caratteristiche, infatti, chiedono ed esigono sempre molto, non abbandonano il loro oggetto ed il loro modo di relazionarsi è quello del “succhiamento”, identificandosi spesso con l’oggetto dal quale vogliono essere nutrite. Tali processi sono in stretta correlazione con le due attività principali caratteristiche della fase orale, secondo Freud: la suzione, fonte di piacere, e l’introiezione, ossia l’impossessarsi dell’oggetto mediante l’introduzione orale. Attraverso la bocca, il bambino entra in contatto con la madre ed ha la possibilità di iniziare a conoscere il mondo esterno.
La personalità orale presuppone, come caratteristica primaria e precipua, l’inclinazione verso comportamenti che coinvolgano il cavo orale: mangiare, fumare, bere, succhiare…, in una disposizione personologica avida di prendere dall’esterno e di trattenere gli elementi. Ma da dove derivano simili tratti caratteriali? Che tipo di ambiente hanno vissuto individui che presentano tali caratteristiche? Quali bisogni non sono stati soddisfatti?
Facciamo un passo indietro. L’allattamento al seno, inteso non solo come nutrimento, ma come momento di incontro e di amore è, come sosteneva D. W. Winnicott, la prima forma di comunicazione che condiziona le successive esperienze comunicative e relazionali.
Quando i bisogni orali non sono soddisfatti, nel bambino si innesca una condizione di sofferenza che viene comunicata attraverso il pianto, in modo che la madre si accorga della frustrazione esperita. Se la madre non si sintonizza con il bisogno del figlio, l’unica difesa di cui egli dispone è la negazione del suo bisogno. Questa estrema manovra difensiva ha lo scopo di risparmiare, in futuro, la sofferenza che nasce dal chiedere il soddisfacimento di un bisogno e non ottenerlo. Tale deprivante esperienza pre-verbale può condurre il bambino alla strutturazione di un pensiero quale: “Non avrò più bisogno di chiedere”.
Una volta adulto, un individuo con un tale background affettivo, poiché difettoso dell’amore incondizionato materno e della fiducia di base, proverà, con l’Altro, ad utilizzare l’empatia, nel tentativo di ricevere il nutrimento affettivo che non ha ricevuto in passato. Egli sente che chiedere è pericoloso e tenterà di essere autonomo, di non avere bisogno degli altri, perché la sensazione di bisogno evocherà continuamente l’esperienza di dolore sofferta nelle prime fasi di vita.
Il conflitto inconscio, dunque, è rappresentato da un lato dalla necessità – atavica – di ricevere amore e dall’altro dalla profonda paura di soffrire e di sperimentare nuovamente la delusione, temendo, così, di poter perdere l’indipendenza; perciò il soggetto vive il paradosso in cui, quando qualcuno gli dà, lui si ritira, perché riemerge la paura di rivivere la tristezza e la disperazione primaria.
Egli, proprio in virtù della sua storia, percepisce il mondo diviso in buono e cattivo, come da piccolissimo sentiva, in termini kleiniani, il seno buono e il seno cattivo della madre.
Chi si fa risucchiare da persone con tali caratteristiche psicologiche, potrebbe, ad un certo punto, non riuscire più a tollerare i comportamenti di cui sopra, perciò potrebbe arrivare a troncare una relazione (di qualsiasi natura essa sia): ciò confermerebbe all’individuo che il mondo è cattivo, riportandolo, così, all’esperienza deprivativa primaria.
Un’ esemplificazione clinica: Viola
Le parole delineate sinora rispetto all’oralità e al “risucchiamento” richiamano, con un’eco spaventosamente forte, la storia di Viola (nome di fantasia), ricoverata per aggravamento della sintomatologia anoressica, a soli 11 anni, in un reparto ospedaliero di neuropsichiatria infantile. Era una bambina profondamente sola, triste, gracile e silenziosa. Il suo sguardo, con quei grandi occhi neri, era spaventato, chiedeva al mondo una spiegazione a tutto quel malessere, evidente anche sulle sue braccia, che, talvolta, si torturava.
La madre di Viola aveva una grave patologia psichiatrica, nonché una malattia autoimmune ed era stata l’unica figlia a scampare, proprio per le sue difficoltà, ad un padre violento e rabbioso. Il rapporto con la figlia era sempre stato idilliaco, senza un litigio, né uno screzio, fino a quando, nella vita di Viola, non si affacciò la pubertà e, di lì, le prime litigate, per un tentativo sano di separarsi da una madre tanto invadente.
Viola sarebbe quindi stata oggetto, fin da piccola, di attenzioni sul suo stato di salute, che la ancoravano esclusivamente ad un ruolo di schermo delle proiezioni materne e non le permettevano, perciò, di poter mostrare bisogni ed emozioni suoi propri. La sua anamnesi presenta, infatti, una grande quantità di preoccupazioni, sin dalla più tenera età, ed interventi sul corpo che sembrano confermare una sorta di linguaggio materno in cui il riconoscimento passa solo attraverso l’identificazione di una malattia e la sua cura. È come se la madre le avesse, inconsciamente, trasmesso il messaggio: “Se stai male mi prendo cura di te e ti inglobo (ed ho un ruolo anche io); se non stai male e ti vuoi separare da me, ti espello perché sfuggi al mio controllo”. In questo contesto relazionale, anche Viola si è espressa con la sola modalità comunicativa che conosceva, perché l’unica che ha imparato: la conversione del malessere relazionale sul sintomo corporeo.
Ed il padre di Viola? Che ruolo aveva in tutte queste dinamiche? È stata una figura sempre sullo sfondo, che mai ha avuto il ruolo né di separazione, né di autorevolezza. Talvolta, addirittura, si notava come fosse Viola stessa a provocarlo per ottenere una regola, un paletto, un “no” che mai le veniva detto o, quantomeno, mantenuto, perché resistente alla sua reazione isterica successiva. Era, anche lui, fagocitato ed espulso, proprio come la figlia, da una madre/moglie inglobante e mortifera.
Era interessante notare come, ad esempio, Viola fuori casa mangiasse e ricercasse complicità con la sua educatrice verso aspetti golosi del cibo/relazione, non certo senza difficoltà o forti ambivalenze, ma proprio perché, forse, scevro della valenza di “prova di forza” con la madre.
Ora Viola è un’adolescente, vive da qualche tempo in una comunità per minori ed è, tolta dal contesto familiare, maggiormente serena, seppure, nei suoi occhi, si legga ancora la profonda tristezza che l’ha attraversata e, talvolta, la attraversa ancora. La “gola”, per Viola, è stata il simbolo del controllo e della dominazione della relazione con la madre, seppure ne sia stata, lei stessa, al contempo anche vittima.
Dott.ssa Melissa Angelini
Psicologa Psicoterapeuta
Dott.ssa Ilaria Sada
Psicologa Psicoterapeuta
Tratto da: La Psicologia Individuale Comparata, Quaderni del Sestante vol. 1, Effatà, Torino, 2018, pp.15-23.