“Sè” e stile di vita: due costrutti a confronto
Il termine “Sé” è forse uno dei più vasti e controversi della storia della psicologia, in quanto, spesso, in base all’orientamento teorico o al momento storico cui si fa riferimento ha assunto – e assume tutt’ora – sfumature differenti.
La “Garzantina” di psicologia (Galimberti, 1999) definisce il concetto di Sé come segue:
nucleo della coscienza autoriflessiva; nucleo permanente e continuativo nel corso dei cambiamenti somatici e psichici che caratterizzano l’esistenza individuale; totalità delle istanze psichiche relative alla propria persona in contrapposizione alle relazioni oggettuali (p. 946).
Si intende l’intera persona di un individuo nella sua realtà – includendo il suo corpo e la sua psiche – che nasce dall’Altro da me, persone o oggetti al di fuori del proprio Sé (Lis, Stella, Zavattini, 1999). La mente costruisce il concetto di Sé attraverso l’esperienza diretta di emozioni, sensazioni e pensieri e attraverso le percezioni indirette del Sé corporeo e mentale, considerato come un oggetto. Tale concetto può essere conscio o inconscio, realistico o meno, nel senso che può rispecchiare le caratteristiche fisiche, emotive o mentali di un soggetto oppure non rispecchiarle per via dei meccanismi di rimozione o spostamento delle caratteristiche inaccettabili e della loro sostituzione con quelle fantasticate, in accordo con i desideri del soggetto e con i suoi bisogni difensivi (ibidem).
La sua coesione e la sua integrazione sono essenziali per lo sviluppo sano dell’Io di una persona. È il centro della personalità di un individuo, che si arricchisce e si alimenta nel rapporto con gli altri, in primis con la figura materna.
La psicologia del Sé di H. Kohut
La psicologia del Sé è, nelle sue linee di fondo, frutto del lavoro di H. Kohut (1913-1981). Questo approccio sottolinea come le relazioni esterne aiutino il soggetto a creare e mantenere la stima e la coesione del Sé.
Secondo Kohut, il Sé nascente di un bambino “si aspetta” un ambiente empatico, sintonizzato sui suoi desideri e sui suoi bisogni “con la stessa indiscutibile certezza con cui si può dire che l’apparato respiratorio del neonato si aspetta che l’ossigeno sia contenuto nell’atmosfera circostante” (Kohut, 1980, p. 88). Quindi, l’empatia genitoriale è indispensabile per la coesione del sé nelle prime fasi della vita di un bambino, proprio perché la sintonizzazione affettiva sui bisogni del bambino e sui suoi stati emotivi è uno dei fattori promuoventi un sano sviluppo del Sé e della personalità.
Quando il bambino vive stati di disagio, le sue tensioni sono, in condizioni normali, percepite dalle figure genitoriali – gli oggetti-Sé – che rispondono ad essi in modo empatico. L’oggetto-Sé, fornito di una organizzazione psicologica matura, includerà il bambino nella propria organizzazione psichica e risponderà ad ogni suo bisogno attraverso un contatto tattile e vocale (prendendolo in braccio, parlandogli…), a tal punto da permettere lo sviluppo del suo Sé. Ciò avviene dal momento che la psiche del bambino partecipa dell’organizzazione affettiva dell’oggetto-Sé e ne percepisce gli stati affettivi come fossero i propri (ibidem).
Kohut stesso riconosce la difficoltà ad attribuire un significato inequivocabile al termine Sé poiché, anche attraverso l’empatia e l’introspezione, non si potrà mai penetrare nel Sé in quanto tale, ma si potranno conoscere solo le sue manifestazioni psicologiche percepite empaticamente o introspettivamente (ibidem).
Il Sé si forma proprio in quanto l’ambiente umano reagisce al bambino, anche piccolissimo, proprio come se egli possedesse già un Sé, anche se rudimentale. Quindi, per Kohut, sono le risposte empatiche date dagli oggetti-Sé a permettere la sopravvivenza psicologica del Sé nascente.
La migliore e più esaustiva definizione di Sé che ci ha fornito Kohut è quella di Sé nucleare, che si stabilisce nel primo periodo di sviluppo psichico. Questa struttura è
la base del nostro senso di essere un centro indipendente di iniziativa e di percezione, integrato con le nostre ambizioni e con i nostri ideali più centrali e con la nostra esperienza che la mente e il corpo formano un’unità nello spazio e un continuo nel tempo. Questa configurazione psichica coesiva e permanente forma il settore centrale della personalità (ibidem, p. 162).
Ai fini del lavoro è, altresì, importante sottolineare un aspetto cruciale che, se non esplicitato, può dare adito a fraintendimenti: ciò di cui il bambino necessita non sono né risposte empatiche continue e perfette da parte dell’oggetto-Sé, né un’irrealistica ammirazione. Ciò che crea la base e la matrice di uno sviluppo sano è la capacità della figura materna di rispondere con un riscontro speculare adeguato almeno una parte del tempo, poiché è patogena l’incapacità cronica di rispondere adeguatamente ai bisogni del figlio (ibidem).
D. Stern: lo sviluppo dei sensi del Sé
Un altro psicoanalista cardine quando si voglia discorrere sul costrutto del Sé è indubbiamente D. Stern (1934-2012). Egli considera il senso del Sé come “un’esperienza soggettiva organizzante” (Stern, 1987, p. 24), che dà coerenza e continuità all’esperienza e all’individuo.
Ognuno dei sensi del Sé emerge in congiunzione con le nuove capacità che accompagnano i cambiamenti dello sviluppo infantile precoce. Non si tratta di stadi o fasi sequenziali, bensì, pur individuandone l’emergere in momenti successivi, operano simultaneamente durante tutta la vita, rappresentando forme specifiche di fare esperienza di sé e delle relazioni interpersonali (Lis, Stella, Zavattini, 1999).
Vediamo ora come Stern concettualizza l’emergere dei diversi sensi del Sé come prospettive soggettive organizzanti in relazione a differenti momenti di crescita e di sviluppo del soggetto. Infatti, man mano che emergono nuovi comportamenti e capacità, essi vengono riorganizzati a formare prospettive soggettive organizzanti del Sé e dell’“Altro” (Stern, 1987).
- Senso del Sé emergente (0-2 mesi): come dice la parola stessa, il Sé non è ancora completamente sviluppato, quindi il bambino non ha ancora la possibilità di integrare in maniera unificata e complessa l’esperienza soggettiva. In questa fase, il bambino è in grado di riconoscere le diverse tonalità affettive.
- Senso del Sé nucleare (2-6 mesi): avviene nel momento in cui il bambino avverte che lui e la madre sono entità fisiche separate, agenti distinti, con distinte esperienze affettive e storie separate. In questi mesi, il bambino scopre che esistono anche altre menti, oltre alla sua. Il Sé e l’Altro non sono più solo entità nucleari di presenza fisica, affetto e continuità, ma includono ora stati mentali soggettivi (sentimenti, motivazioni, intenzioni). Questi stati mentali sono il nuovo contenuto della relazione.
- Senso del Sé soggettivo (7-15 mesi): rende possibile un’intersoggettività tra bambino e genitore; nasce la possibilità di leggere gli stati mentali altrui, di conformarsi, sintonizzarsi (o meno). Le capacità richieste sono ora quelle di avere un oggetto comune di attenzione, di attribuire agli altri intenzioni e motivazioni, stati d’animo e capire se sono o meno conformi ai propri. Compare, attorno agli 8-9 mesi di vita, il fenomeno della sintonizzazione affettiva, la corrispondenza interattiva non si verifica più al livello del comportamento (imitazione), ma si colloca nell’area degli stati d’animo.
- Senso del Sé verbale (15-18 mesi): il bambino è ora in grado di creare dei significati condivisibili riguardo al Sé e al mondo, grazie alle conquistate capacità di oggettivare il Sé, di essere autoriflessivi e di comprendere e produrre il linguaggio, per usarlo in maniera comunicativa e simbolica.
- Senso del Sé narrativo (3-4 anni): il bambino trasforma la sua capacità di usare il linguaggio come sistema di comunicazione sul mondo e arriva a costruire una narrazione della propria storia, un’autobiografia.
La concezione di “stile di vita” secondo A. Adler
Adler ricorre ad un concetto nuovo, evocativo per il tema che si cerca di esporre in questa sede. Con stile di vitasi intende un modo personale di percepire, interpretare e comprendere la realtà che si presenta al soggetto.
L’autore considera lo stile di vita che ogni individuo manifesta sin dall’età infantile decisivo per il successivo sviluppo della personalità. Egli, infatti, ritiene che esso si strutturi e si organizzi saldamente in età precoce, durante i primi cinque – sei anni di vita. Tale costrutto deriverà dallo stile relazionale della madre, dal tipo di educazione ricevuta, dalle interazioni avute con gli adulti significativi e, non per ultimo, dall’eredità organica. Questa nozione comprende l’opinione che l’individuo ha di se stesso e del mondo ed il suo modo unico e specifico di raggiungere un obiettivo, attraverso determinate strategie ed azioni, in particolari situazioni di vita. Racchiude in sé gli istinti, i sentimenti, il pensiero, il modo di relazionarsi con gli altri, sia a livello verbale, che non verbale, gli atteggiamenti e le caratteristiche proprie della sua unica e specifica personalità (Adler, 1997; Ansbacher, Ansbacher, 1997).
Ma come si sviluppa lo stile di vita?
Il bambino, fin dalle sue prime manifestazioni motorie, sperimenta il proprio corpo e la sua validità. Ciò fa sì che, pian piano, si strutturi una certa tipologia di personalità, che comprende atteggiamenti, regole e principi che si acquisiscono all’interno della famiglia ed in base alle esperienze che si effettuano nel proprio ambiente di vita, sia familiare, che amicale. Si formerà, così, il proprio stile di vita e durante tutta l’esistenza, l’individuo penserà, sentirà e agirà in accordo con tale stile di vita (ibidem).
Da questa breve presentazione della concezione teorica di Adler, si evince come lo stile di vita abbia molti aspetti in comune con il costrutto del Sé di cui sopra. Entrambi nascono dalle interazioni con le figure affettive di riferimento e si sviluppano, per dirla in termini bowlbiani, anche in base allo stile di attaccamento che si strutturerà con i caregivers.
Il Sé e lo stile di vita saranno la nostra guida nella vita, ciò cui ci appiglieremo quando saremo in difficoltà o nel momento in cui vorremo ritornare alla nostre origini o ricordarci da dove veniamo, proprio perché frutto della “tenerezza” ricevuta dai nostri genitori, che ci ha permesso di crescere ad individuarci come soggetti adulti, con un Sé coeso e con una struttura di personalità sana ed integrata.
Ma cosa accade se ciò non avviene? Cosa può succedere se il bisogno di tenerezza non viene soddisfatto perché non si hanno genitori affettivamente disponibili e in grado di fornirci queste cure?
Narrazione e continuità del Sé
…(occorre) considerare il racconto
come il custode del tempo,
nella misura in cui
non vi sarebbe tempo pensato
se non raccontato.
P. Ricoeur
Narrare rappresenta l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un accaduto o la propria storia. Non è possibile, infatti, presentarsi al mondo se non narrandosi.
L’etimologia stessa della parola “narratore” è eloquente: dal latino narrator, -oris, da cui l’aggettivo gnarus, ossia qualcuno che è pratico di un qualcosa perché lo conosce. Ma, cercando ancora più agli albori, si nota come l’etimologia prima sia greca, nel verbo γιγνώσκω (gignosco = conosco), da cui il narratore è colui che dice, che racconta, perché conosce qualcosa.
Il narratore, dunque, è colui che ha esperienza e chi narra la propria storia ne ha esperienza diretta, la conosce perché ne è stato protagonista in prima persona. Il narrare di Sé ha a che fare con l’idea del tempo, con la parola e l’incontro con se stessi e con l’altro (Balsamo, 2001).
Balsamo (2001) cita le parole di J. Bruner, che ben spiegano il fulcro dell’importanza della narrazione per ciascun individuo:
la narrazione è un processo di elaborazione del sé, della integrità della persona, identificabile nella ricerca di continuità e invarianza rispetto al tempo e alle circostanze. La narrazione integra le dimensioni di affetto, percezione e azione che nei primi anni di vita sono indifferenziate e disarmoniche (ibidem, p. 60).
Narrare rappresenta, quindi, un’operazione di consapevolezza in quanto equivale a costruire una propria visione di se stessi e del mondo: sono io come narratore che, nel momento in cui racconto qualcosa, opero una selezione e un’organizzazione del materiale disponibile.
L’elaborazione dei fatti in storie o “racconti personali” è necessaria perché le persone diano un senso alla loro vita, perché acquistino un sentimento di coerenza e continuità. Il raccontare, infatti, è anche custode dell’identità, poiché raccontate significa ripercorrere, dare un senso, creare nessi logici e continuativi su di sé e su ciò che si è vissuto, dando vita ad un contesto pieno di significato e “sicuro”.
Il soggetto costituisce il suo Sé attraverso la narrazione che può fare della propria storia e degli avvenimenti che ha vissuto nei processi interattivi con le figure di riferimento e le figure altre che si susseguono nella sua vita.
E se non è possibile accedere ad una storia? Cosa succede se non è possibile raccontarsi un passato che abbia una continuità nel presente? Come si fa a recuperare le parti “dimenticate” o ignorate? Come si strutturerà il proprio Sé?
Questo è ciò che accade spesso ai bambini adottati, poiché sovente non è possibile accedere a modelli accudenti continuativi e responsivi, che forniscano non solo sicurezza e protezione, ma anche una storia cui poter fare riferimento
Un esempio di non continuità del Sé: l’adozione
L’adozione, si sa, è un’esperienza molto complessa per tutti gli attori in scena: il minore, i genitori adottivi e i genitori biologici.
Spesso, è solo l’inizio di un percorso complesso e, in molte situazioni, i membri del triangolo adottivo non trovano un adattamento “tranquillo”, ma vanno incontro a ulteriori fasi di stress nel periodo post-adottivo.
Negli anni il contesto sociale e culturale ha modificato lo scenario dell’adozione, mettendo in crisi credenze e valori che per decenni hanno costruito e modellato la prassi dell’adozione (Vadilonga, 2010).
Per anni, l’adozione è stata considerata come la quadratura del cerchio, poiché abbassava lo stress derivante dalle tre parti del triangolo. Infatti, dopo poco, mirava ad “eliminare” uno dei suoi lati – i genitori biologici – per promuovere la famiglia adottiva come unica famiglia. In questo modo, il modello adottivo era fondato sul segreto delle origini e basato sull’interruzione tra il “prima” e il “dopo”.
I nuovi scenari adottivi, invece, si stanno evolvendo sempre più su un modello fondato sul recupero del passato, dove la “storia del bambino non inizia nel momento in cui incontra la famiglia adottiva – sia che questo avvenga a pochi mesi di età sia che avvenga in età più avanzata – ma al momento della nascita; è, quindi, importante, che questo pezzo venga recuperato durante il periodo adottivo” (ibidem, p. XVI).
Elemento importante è, poi, la continuità della storia di un bambino, senza che vi sia un taglio tra ciò che è avvenuto prima dell’adozione e ciò che è avvenuto dopo.
Le “famiglie riuscite”, quindi, sarebbero quelle che conservano la memoria del periodo precedente l’adozione, perché ciò darebbe loro modo di ritrovare una continuità del tempo, in quanto, se non si possiede un passato, può risultare difficile avere un futuro. E ciò ha notevoli implicazioni anche sullo sviluppo del Sé del bambino.
Il problema del passato del bambino adottivo coinvolge profondamente tutti i protagonisti della vicenda adozionale, in modo così forte da creare intrecci affettivi spesso difficili da districare, per la complessità della situazione che si viene a creare.
Com’è noto agli addetti ai lavori, tutti gli studi condotti sugli effetti della carenza di cure materne e sull’istituzionalizzazione dei bambini hanno confermato che più a lungo si protrae l’esperienza di deprivazione affettiva, più difficilmente il trauma della perdita sarà elaborato e superato dal soggetto. Inoltre, quanto più il bambino è piccolo, tanto più l’effetto di tali traumi è devastante, proprio perché egli è privo di risorse difensive (Bal Filoramo, 1993).
Molti sono gli aspetti importanti in tema di adozione e tutti degni di nota. Tuttavia, ho deciso di soffermarmi maggiormente su ciò che ritengo possa essere affine al tema che sto trattando, specialmente per le implicazioni relative allo sviluppo del Sé: il vuoto delle origini e l’importanza della dimensione narrativa della propria storia.
Il diritto del bambino adottato a conoscere, qualora lo desideri, le proprie origini sembra indiscutibile, invece la legge 184/83, all’art. 27 comma 3 recita: “Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali“. Se è vero che, con questo provvedimento, il minore viene tutelato dalla possibile intrusione di parenti che potrebbero riattivare traumi subiti, dall’altro appare negata la possibilità di ricostruire la propria storia familiare, rintracciando le proprie radici (ibidem).
Attraverso la propria storia, si cercano l’identità e l’appartenenza: in questo modo, si costruiscono quelle sicurezze che permettono il formarsi di un Sé e di un’identità in grado di affrontare le difficoltà della vita senza rimanerne schiacciati (De Rienzo et al., 1999).
Se si tiene conto che interrogarsi sulle proprie origini è un bisogno naturale, lo sarà ancor di più per i minori adottati, per i quali il confine è segnato non solo dal ricordo-non ricordo, ma anche dalla presenza di caregivers diversi, in un ambiente spesso confusivo ed imprevedibile, che crea incertezze ed angosce.
Il senso di vuoto deriva dalla profonda esigenza umana di sapere da chi si è nati e da dove si provenga, al fine di costruire un Sé che unisca le diverse “isole” della propria storia. È di vitale e primaria importanza: molti ragazzi sperimentano l’assenza di continuità generazionale come conseguenza della mancanza di radici (Bal Filoramo, 1993; Vadilonga, 2010).
Questo senso di vuoto è talmente angoscioso per i figli adottivi che essi ritengono preferibile affrontare una realtà negativa piuttosto che vivere senza poter riconoscere le proprie radici (Bal Filoramo, 1993, p.83).
Bal Filoramo (ibidem), a questo proposito, racconta la storia di una bimba adottata che, guardando con la madre adottiva le fotografie della sua città d’origine, le chiese di mostrarle l’ospedale dov’era nata. Quando la madre rispose di non saperlo, la bimba pronunciò queste parole, con tono supplichevole: “Non importa, dimmelo anche solo per finta, io faccio finta che è per davvero!” (p. 84).
Parole che toccano l’anima, se pensiamo a come questa bimba fosse costretta a mendicare un pezzo della sua storia, anzi, di più, le sue origini per costruire un pensiero organizzato su di sé.
A tal proposito, gli studi sulla capacità di resilienza ci dicono che un fattore protettivo fondamentale riguarda le buone abilità di comunicazione (Vadilonga, 2010): se un’assenza di comunicazione porta a disfunzioni in una famiglia “normale”, in una famiglia adottiva, in cui, oltre alle quotidiane difficoltà si sommano quelle relative all’adozione, come sarà lo sviluppo del Sé del bambino? I “buchi” della sua storia potrebbero trasformarsi in buchi nella costruzione del suo Sé, già messo a dura prova negli anni precedenti l’adozione. E il vuoto delle origini, inteso come interiorizzazione di modelli disfunzioniali di interazione, di oggetti parziali e confusivi, non garanti di empatia e tenerezza potrebbero dar luogo a disordini comportamentali e psicologici anche seri.
Il compito più importante per il figlio adottato è costruire uno stabile e sicuro senso di Sé. Sebbene i problemi relativi alla costruzione del Sé e, quindi, dell’identità siano un punto critico per qualunque individuo, la soluzione a questo momento di crisi (nel senso etimologico del termine di scelta, valutazione) è un compito ancor più complesso per un adottato. Questo poiché il senso di perdita a volte sperimentato precocemente fin dalla più tenera età si può estendere lungo tutto l’arco di vita ed includere il senso di perdita non solo dei propri genitori biologici, ma anche di parti di Sé (ibidem).
Alcuni studiosi (Brodzinsky, Smith, Brodzinsky, 1998, cit. in ibidem) ritengono che gli adottati incontrino maggiori difficoltà nella costruzione del proprio Sé per il senso di disconnessione dal passato che sperimentano. Crescere nelle propria famiglia di origine, infatti, fornisce delle linee guida che facilitano il compito della definizione del Sé; “possiamo vedere il nostro futuro riflesso nei genitori, i pezzi della nostra personalità echeggiano nei fratelli e nelle sorelle” (ibidem, p. 160). Poche, invece, sono le tracce per un adottato, che non può avvalersi dei miti familiari, delle storie tramandate e di quella cultura intrafamiliare che è nostra e nostra soltanto.
Ecco, dunque, perché è così importante che un figlio adottato possa ricercare le proprie origini: ivi si cela l’abbozzo del proprio Sé, della propria identità, di chi si sarà in futuro.
Come si potrà, dunque, costruire un Sé coeso se al bambino manca il primo tassello, la prima fila di mattoni per costruire la sua personale casa? Compito di favorire lo sviluppo di un Sé il più possibile stabile è dei genitori adottivi, i quali dovranno costituirsi come base sicura, ovvero come persone di cui fidarsi e dai quali poter ricevere amore, comprensione e risposta ai propri bisogni. Solo così si può innescare un percorso finalizzato alla costruzione della consapevolezza di sé. Attraverso un nuovo legame di attaccamento, il bambino adottivo ha la possibilità di ricostruire la propria storia e, attraverso tale ricostruzione, può elaborare nuove rappresentazioni interne adeguate ai cambiamenti avvenuti nella situazioni della sua vita (Vadilonga, 2010).
L’importanza della tenerezza nella relazione genitori-figli
Il cucciolo d’uomo […] si costruisce e diventa adulto soltanto nella relazione e, prioritariamente e primariamente, nella relazione con chi lo ha generato fisicamente e/o psicologicamente (Bastianini, 2008, p. 46).
Quella citata è una frase intuitiva per ogni psicologo, giacché tutti i teorici hanno concordato sul fatto che un bambino non possa crescere sano al di fuori delle cure materne e dell’amore – inteso in senso lato – con cui i genitori dovrebbero allevarlo.
Ma, se andiamo più a fondo e cerchiamo di analizzarla meglio, ci sorgono delle questioni. Cosa si intende con il termine “si costruisce”? E se questa “relazione con chi lo ha generato fisicamente” non può sussistere? Per fortuna, la citazione si conclude con “e/o psicologicamente”: in questa frase possono sicuramente essere inseriti anche i bambini adottivi, che non possono crescere con chi li ha generati fisicamente, per impossibilità di vario genere, ma che possono costruirsi e diventare adulti con chi li ha generati psicologicamente.
Spesso, i minori adottati subiscono una serie di traumi e separazioni molto precoci, prima dalla madre biologica, poi, magari, dall’istituto nel quale erano stai inseriti e, nel quale, con molta probabilità, avevano instaurato un rapporto più significativo con un operatore, ai quali si sommano “varie ad eventuali” del caso.
Capita, altresì, che tutte queste decisioni vengano prese senza interpellare il bambino, soprattutto se molto piccolo e, in alcuni casi, senza fornirgli spiegazioni adeguate, con la conseguenza che egli è costretto a ricercarne da solo, con la maturità e con le capacità cognitive ed emotive acquisite fino a quel momento. Ma, senza un adulto empatico e sintonizzato, tali spiegazioni sono spesso “depressive” ed autocentrate, rivolte a ricercare la causa dentro di sé perché non si hanno gli strumenti per poter mettere in discussione l’ambiente circostante né per poter comprendere la realtà secondo molteplici punti di vista.
L’inserimento in una famiglia adottiva ha una funzione cuscinetto, dal momento che è volto ad ammortizzare tali traumi e, soprattutto, a fornire spiegazioni non colpevolizzanti al bambino, in un clima di calda condivisione emotiva.
Il bambino, in altre parole, dovrebbe trovare la famiglia che non ha mai sperimentato prima, che gli donai calore, affetto, amore e che lo accudisca con la tenerezza di cui egli ha bisogno per poter diventare adulto.
È la capacità di amare di ogni genitore ad imporsi in primis alla nostra attenzione […]. Intuitivamente la riconosciamo come matrice primaria del percorso di crescita psicologica, come radice fondante dell’identità e della possibilità di evoluzione e cambiamento per ognuno. E se entriamo nello specifico, vediamo come è l’articolarsi di tenerezza e aggressività già all’interno delle primissime relazioni tra il bambino e i suoi genitori e lungo tutto l’arco evolutivo ad attivare la competenza e il bisogno che ogni bimbo ha di essere in relazione con e a trasformarlo progressivamente in capacità adulta di voler bene a se stesso e agli altri (ibidem, p. 49).
Già nel 1908, Alfred Adler considerava il bisogno di tenerezza primaria un precursore dell’empatia e, di conseguenza, del sentimento sociale: si tratta del bisogno provato fin dal primo vagito dal bambino, di ricevere tutto ciò che è condensabile col termine “delicato” e, di conseguenza, affetto, cura, amore, coccole. Se egli è riconosciuto con sufficienti attenzioni e scambi di reciprocità da parte del caregiver che si prende cura di lui, si potrà alimentare il linguaggio della tenerezza, della reciprocità e del sentimento sociale (Di Summa, 2008). Il bisogno di tenerezza si orienta, in seguito, verso le relazioni d’affetto da cui nascono l’amore per gli altri parenti, l’amicizia, i sentimenti sociali più specifici e l’amore, a seconda delle modalità affettive alle quali il bambino è stato esposto nella sua vita.
La negazione o l’eccessiva gratificazione del bisogno di tenerezza non permettono un sano sviluppo dell’empatia, del sentimento sociale e dello spirito di cooperazione, proprio perché non si verranno a creare le condizioni base per lo sviluppo e la crescita del minore.
Vorrei concludere prendendo spunto da una frase di Bastianini (2008), che racchiude il senso della mia dissertazione:
ciò che permette loro (bambini) di crescere è la relazione con noi (genitori), con ciò che siamo diventati nella nostra vicenda di vita e ciò che siamo oggi come adulti all’interno della coppia genitoriale e della interessante possibilità, riservata ad ogni genitore, di rimettersi in gioco in una relazione genitore-figlio (pp. 46-47).
Dunque, la tenerezza fornisce la possibilità di costruire un Sé unitario, poiché ci si sente amati e “coccolati”e ciò rende possibile una continuità e la costruzione di una storia di Sé.
La narrazione in psicoterapia
L’attività del narrarsi può essere considerata il fulcro del processo terapeutico, poiché, come si è già detto, il narrare (ri-)definisce costantemente la nostra identità: ciò avviene proprio perché, attraverso il raccontare di sé, delle proprie vicende e delle proprie emozioni ad un professionista preparato ad ascoltarle, accoglierle e restituirle, fornisce comprensione e significato a qualcosa che può “non avere senso”.
Nel racconto di una storia prende forma e si rende visibile il modo di vivere del soggetto, poiché egli racconterà in un modo che è suo e suo proprio, utilizzerà determinati vocaboli ed una specifica “punteggiatura” (emotiva), volta a mostrare i suoi processi di pensiero e le sue emozioni, perciò la sua identità, il suo Sè.
Senza una storia che ci racconti chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, ci sentiamo sospesi in un vuoto pneumatico, attori senza sceneggiatura, scenari senza storia. Privati della presenza di qualcuno che ci racconti la nostra storia, non impareremo mai a raccontarla né a noi stessi né ad altri (Cappello, 2007, p. 19).
Qual è, dunque, il nostro compito, in quanto, terapeuti, quando ci troviamo davanti a pazienti con storie simili a quelle in cui si è fatto riferimento in questo lavoro? Quando ci si trova dinnanzi, cioè, ad individui con dei grossi “vuoti” alle spalle, che hanno bisogno di un Io forte che li prenda per mano e li accompagni ad esplorare terreni ostici e pericolosi?
Dobbiamo facilitare la narrazione di Sè, poiché la possibilità di raccontare la propria storia permette di dare un senso alla nostra esperienza di vita. Raccontare la propria storia significa mettersi in ricerca: una ricerca di senso, di direzione, di prospettiva, di luoghi e di persone che la abitano. In questo modo l’uomo – il paziente – si mette alla ricerca del proprio senso, del senso che dà alla propria vita e, attraverso ciò, a se stesso in quanto essere sociale (ibidem).
Cito una frase che esprime in nuce ciò che intendo sottolineare:
i racconti sono l’origine della nostra personalità, ci permettono di costruire, di elaborare aspetti distruttivi, hanno una funzione di incoraggiamento perché consentono di pensare itinerari, soluzioni, percorsi verso mete che altrimenti non potremmo neanche ipotizzare (Ornato, 2007, p. 21).
La tradizione ci insegna che da sempre gli adulti hanno raccontato ai bambini delle storie non solo per intrattenerli, e divertirli ma anche per trasmettere loro dei messaggi che potessero aiutarli a crescere e a capire il mondo. Non si tratta solo di favole, ma mi riferisco anche ai miti familiari, a quelle storie che si raccontano e che riguardano i nostri nonni o i nostri genitori. I bambini accolgono sempre queste storie con grande interesse, poiché rispondono alla loro curiosità, al loro bisogno di trovare modelli di riferimento da imitare (ibidem).
Possiamo, dunque, immaginare la profonda sofferenza e il profondo senso di vuoto sperimentato da quei bambini, come gli adottati, che una storia non ce l’hanno o, meglio, non possono accedervi perché troppo confusa e/o traumatica.
La storia è come una cornice che organizza e struttura l’esperienza vissuta: è attraverso le storie che l’esperienza viene interpretata. Le storie permettono alle persone di esaminare il susseguirsi degli eventi attraverso una dimensione temporale; è con esse che possiamo comprendere i cambiamenti avvenuti nella nostra vita, perché sono queste che li determinano. La narrazione struttura l’esperienza umana: è attraverso l’atto di raccontare che si ha l’opportunità di creare una versione differente della nostra vita, come accade in terapia.
L’intera attività terapeutica è in fondo questa sorta di esercizio immaginativo che recupera la tradizione orale del narrare storie: la terapia ridà storia alla vita (J. Hillmann, Le storie che curano, 1984).
Un Sé coeso e “sano”, dunque, per costruirsi, ha bisogno di continuità e significato condiviso. Infatti, gravi traumi uniti alla mancanza di tenerezza, empatia, sostegno e sintonizzazione possono inficiare gravemente lo sviluppo del Sé, proprio perché sono venute a mancare le fondamenta su cui costruire la propria identità.
La possibilità di accedere ad un passato condiviso, seppur complesso e doloroso, come accade, spesso, nelle storie dei bambini adottati, può favorire lo sviluppo di un Io sano e strutturato. Al contrario, la confusione, i segreti e i “non detti” possono portare allo sviluppo di un Sé “colabrodo”, pieno di buchi, in cui i “pezzi” della storia di ognuno possono perdersi, perché non sostenuti da una struttura solida; così si possono instaurare disagi, turbe e psicopatologie anche importanti.
Per quanto concerne l’adozione, i genitori adottivi dovranno mostrarsi aperti al dialogo e non mostrarsi imbarazzati dalle domande poste dal minore, onde evitare che il silenzio deformi il rapporto. Ciò che è importante non è, infatti, dare più informazioni possibili, quanto invece far vivere al bambino l’esperienza positiva del sentirsi accolto con la propria diversità biologica e la propria storia, creando senso di appartenenza e autostima.
A volte ciò accade, a volte no, perciò il bambino/ragazzo rimane preda di dubbi angoscianti su di sé e sulla propria storia: non possiamo evitare che ciò accada, perché l’adozione è un terreno troppo sdrucciolevole per poter controllare tutti i fattori intervenienti, ma, in quanto operatori della salute mentale, possiamo continuare a tutelare i minori al meglio delle nostre possibilità, fornendogli una relazione “calda” e autentica ed un contenitore dove deporre i “pezzi” della loro vita che provocano dolore e sofferenza, affinché, poi, possano recuperarli, dotati di senso.
Dott.ssa Melissa Angelini
Psicologa Psicoterapeuta
Bibliografia
- Adler A., Il senso della vita, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1997.
- Ansbacher H.L., Ansbacher R.R., La psicologia individuale di Alfred Adler, Psycho – G. Martinelli, Firenze, 1997.
- Bal Filoramo L., L’adozione difficile. Il bambino restituito, Borla, Roma, 1993.
- Balsamo B., La parola del narrare e dell’incontro, Effatà Editrice, Torino, 2001
- Bastianini A. M., “Infanzia dorata, infanzia tradita: crescere con genitori imperfetti”, Il Sagittario, 21, 2008, pp. 45-52.
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Tratto da: Fenomeno e Noumeno: due facce della medaglia, Quaderni del Sestante vol. 2, Effatà Editrice, Torino, 2019